martedì 16 luglio 2013

Disabili e lavoro. Corte di giustizia europea condanna l’Italia: "Non ha recepito direttiva UE"

L’Italia è stata condannata per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili. Ed è perciò venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente la direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di lavoro. LA SENTENZA

Gli Stati membri devono imporre a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili. Non avendo stabilito questo obbligo, l’Italia è venuta meno ai propri obblighi derivanti dal diritto dell’Unione. È quanto hanno stabilito i giudici della Corte di Giustizia Ue che hanno condannato il nostro Paese.

La Corte in ogni caso ha specificato come “il diritto italiano include vari provvedimenti legislativi in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone disabili, nonché di diritto al lavoro”.

Ma il fatto, per cui la Commissione ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia il ricorso per inadempimento, è “che le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana di trasposizione della direttiva non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Peraltro, l’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio”.


Le motivazioni 
La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - approvata a nome dell’Unione europea con una decisione del Consiglio UE  ha lo scopo di promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili e di promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità.

La direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di impiego si fonda sulla considerazione che la discriminazione basata su una disabilità può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale,  il miglioramento della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. Tale direttiva stabilisce pertanto un quadro generale per la lotta a discriminazioni di questo tipo riguardo all’occupazione e alle condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

Per garantire ai disabili la parità di trattamento, la direttiva impone in particolare al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti comportino un onere finanziario sproporzionato. Tale onere non è sproporzionato quando è compensato in modo sufficiente da misure statali a favore dei disabili.

Il diritto italiano include vari provvedimenti legislativi in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone disabili, nonché di diritto al lavoro.

La Commissione ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia un ricorso per inadempimento, affermando che le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana di trasposizione della direttiva non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Peraltro, l’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio.

Nell’odierna sentenza, la Corte dichiara che, se è vero che la nozione di «handicap» non è espressamente definita nella direttiva, essa deve essere intesa alla luce della convenzione dell’ONU, nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

La convenzione dell’ONU contempla poi un’ampia definizione degli «accomodamenti ragionevoli», con i quali intende gli adattamenti da prevedere in una determinata situazione per garantire alla persona disabile il godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri.

Inoltre, la Corte ha già statuito che tale concetto si riferisce all’eliminazione delle barriere che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Pertanto, gli Stati membri devono stabilire un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci e pratici (sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza tuttavia imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato.

La Corte sottolinea che siffatto obbligo riguarda tutti i datori di lavoro. Non è sufficiente che gli Stati membri prevedano misure di incentivo e di sostegno, ma è loro compito imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete.

La Corte esamina le varie misure adottate dall’Italia per l’inserimento professionale dei disabili e conclude che tali misure, anche ove valutate nel loro complesso, non impongono a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.

Di conseguenza, l’Italia per queste ragioni secondo i giudici è venuta meno ai propri obblighi

Fonte: quotidianosanita.it