Solo sospetti, senza uno straccio di prova. Motivo: i siriani le avrebbero cancellate, bombardando a lungo, nelle ore seguenti, i quartieri di Damasco che sarebbero stati attaccati con armi chimiche il 21 agosto. Il governo Obama «valuta altamente probabile» che il regime di Assad abbia sferrato l’attacco, dichiara di avere indizi precisi ma rifiuta di diffonderli per «proteggere le fonti». Fine. Altro non ha dire, l’amministrazione che – sulla base di queste scarne note – pretende di coinvolgere il mondo in una guerra pericolosa, fondata sulla propaganda e sull’ipocrisia oltre che sulla menzogna: il regime di Washington infatti continua a definire “opposizione” le milizie che ha reclutato, armato e addestrato sul campo, da almeno due anni, con l’obiettivo di rovesciare il governo di Damasco trasformando in sanguinosa guerra civile l’iniziale rivolta democratica e pacifica dei cittadini siriani ostili al potere autoritario di Assad.
Nel rapporto ufficiale prodotto dal governo statunitense, tradotto dalla redazione di “Megachip”, per motivare la gravissima accusa contro la Siria si fa riferimento a «dati di intelligence» nonché «informazioni geospaziali», ovviamente non divulgabili, nonché ad «un insieme significativo di dati provenienti da fonti aperte», cioè i socialmedia e i siti web che hanno pubblicato informazioni e video. Materiali che gli Usa ritengono credibili, perché girati e caricati in rete soltanto dopo l’attacco, e inerenti località riconoscibili e coerenti con la geografia del massacro, che avrebbe provocato 1.429 vittime, di cui «almeno 426 bambini». Il rapporto Usa cita anche «testimonianze provenienti da personale medico siriano e internazionale», insieme a «dichiarazioni di testimoni» e «testimonianze di giornalisti», oltre a «rapporti provenienti da organizzazioni non governative altamente affidabili». In ogni caso, non un nome: almeno nel testo ufficiale, destinato ai governi degli altri paesi, non compaiono precisazioni di alcun tipo. Le gravi affermazioni dell’amministrazione Obama si limitano a citare circostanze generiche, non documentate in alcun modo.
Il rapporto si dilunga piuttosto su dettagli già universalmente noti, come lo stock di armi chimiche in possesso della Siria e la catena di comando prevista per il loro eventuale impiego. «Nei tre giorni precedenti l’attacco, abbiamo raccolto intelligence da fonti umane, da intercettazioni di segnali e da sistemi di rilevazione geospaziali che rivelano attività del regime che riteniamo siano state associate con la preparazione di un attacco con armi chimiche», si legge nel report. Movente dell’eventuale impiego delle armi letali: la “frustrazione” del regime per non essere riuscito a “ripulire” dalla presenza dei ribelli alcune aree alla periferia di Damasco. Versione peraltro puntualmente smentita, da più fonti, già all’indomani della strage: al contrario di quanto scrive Washington, il 21 agosto i “ribelli” stavano battendo il ritirata dopo una massiccia offensiva dell’esercito siriano, che nei cinque giorni precedenti aveva causato circa 1.500 perdite fra i miliziani della “Brigata di Allah”.
L’ambasciatore russo all’Onu ha mostrato ai colleghi immagini eloquenti, scattate dai satelliti: mostrano due obici che – esattamente al momento dell’attacco chimico – da un quartiere ancora occupato dai miliziani sparano i loro colpi di artiglieria su un’altra zona di Damasco, anch’essa ancora in mano ai “ribelli”. Quanto alle famose prove evocate da Obama a carico dell’esercito di Assad, il rapporto – sfidando il ridicolo – dichiara che unità siriane sarebbero state viste indossare maschere antigas. I feriti ricoverati negli ospedali di Damasco? Secondo i medici mostravano «segni fisici compatibili con l’esposizione ad agenti nervini» ma, precisa sempre Washington, «non possono essere escluse altre cause».
Nel pomeriggio del 21 agosto, sostiene il governo Usa, «abbiamo ottenuto informazioni da cui risulta che personale addetto alla gestione dell’arsenale chimico siriano abbia ricevuto l’ordine di cessare le operazioni. Contemporaneamente, il regime ha intensificato il fuoco di artiglieria contro molti dei borghi che avevano subito l’attacco chimico». Tesi evidente: il regime avrebbe cercato di cancellare le tracce del “misfatto”. «Nelle ventiquattro ore successive all’attacco, abbiamo individuato indicazioni di fuoco di artiglieria e razzi approssimativamente quattro volte più intenso di quello misurato nei dieci giorni precedenti», volume di fuoco protrattosi fino alla mattina del 26 agosto.
L’unico vero appiglio per motivare davvero l’accusa è contenuto in informazioni che – se non dimostrate (come è finora) – assumono il carattere della pura insinuazione: «Abbiamo intercettato comunicazioni di un alto funzionario siriano, intimamente a conoscenza dell’offensiva, che ha confermato che armi chimiche sono state utilizzate il 21 agosto dal regime, e che mostrava preoccupazione per la possibilità che gli ispettori Onu potessero raccogliere prove di ciò». Il mondo, probabilmente, sarebbe ansioso di ascoltarla, questa intercettazione dell’“alto funzionario siriano”. Intercettazione soltanto ipotetica, per ora. E così decisiva, in ogni caso, che lo stesso governo Usa si premura di aggiungere: «Continueremo la ricerca di ulteriori informazioni per colmare ogni vuoto circa la nostra piena comprensione della ricostruzione degli eventi».
Anthony Cordesman, già alto funzionario della difesa, ora a Washington presso il Center for Strategic and International Studies, prende di mira la credibilità del numero delle vittime e critica Kerry per essersi «insabbiato da sé con il bluff del numero assurdamente precisissimo» di 1.429 morti, che secondo Cordesman non corrisponde né alle risultanze britanniche di “almeno 350 vittime, né a quelle di altre fonti siriane dell’opposizione come il Syrian Observatory for Human Rights (502 morti, di cui circa 100 bambini e “decine” di ribelli). Secondo Cordesman, «Obama si è trovato a quel punto costretto ad arrotondare il numero a ‘ben oltre mille vittime’, creando una miscela di contraddizioni sulla maggior parte dei fatti basilari». Un “abbaglio” confermato dall’intelligence francese, che conferma soltanto 281 decessi. Il cronista britannico Eliot Higgins, sul blog “Brown Moses”, di fronte alle foto esibite dagli Usa(lanciarazzi presentati come vettori delle “armi letali” di Assad), si domanda: «Come facciamo a sapere che queste sono armi chimiche?».
Quelle mostrate, continua Higgins, sono «munizioni collegabili con presunti attacchi chimici», ma non per forza «munizioni chimiche usate in attacchi chimici». Dunque: spetta solo all’Onu se sono state davvero utilizzate armi di distruzione di massa a base di gas tossici. La pensa così anche un autentico specialista, Dan Kaszeta, ex ufficiale chimico dell’esercito americano e tuttora una delle figure di maggior spicco negli Usa fra gli esperti di armi chimiche e biologiche, spiega che è facile “creare” casi di “falsi positivi per il Sarin”, specie se gli esami sono fatti sul campo, perché i semplici pesticidi o altri simili composti chimici possono provocare effetti in grado di far pensare proprio al Sarin. E un parlamentare come Justin Amash si pronuncia in questi termini: «Quello che ho sentito nel briefing dei funzionari dell’amministrazione Obama davvero mi rende più scettico rispetto ad alcuni aspetti significativi della ricostruzione dei fatti fornita dal presidente a giustificazione dell’attacco».
Fonte: libreidee.org