Quella che stiamo vivendo non è certo la “prima globalizzazione”, dato che gli storici considerano l’ultima parte dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento, come il primo tentativo da parte dell’economia liberista di imporre la propria dottrina e quindi, di fatto, di permettere agli ingenti capitali delle compagnie europee di essere liberi di circolare per il globo alla ricerca di nuovi profitti. L’era della “seconda globalizzazione” è iniziata con lo sfaldamento del blocco sovietico e quindi la venuta meno della “cortina di ferro” che impediva ai due mondi – quello capitalista americano e quello comunista sovietico – di commerciare liberamente. A partire da quel momento tutte le grandi corporation sono state libere di agire a proprio piacimento per la massimizzazione dei propri profitti su scala mondiale, ricercando quindi le migliori condizioni in cui produrre o far produrre le loro merci da poi rivendere a caro prezzo ai ricchi consumatori americani ed europei.
Questo ha portato allo smantellamento della vecchia struttura delle imprese, legata alla produzione in loco delle merci e la creazione della fedeltà al marchio tramite i propri lavoratori, per abbracciarne una nuova, libera di dedicarse tutte le energie dell’azienda al core business, a ciò che è veramente essenziale nella moderna corporation, che i manager delle grandi Business School hanno detto essere il marchio, cioè l’immagine dell’azienda. Il marchio è ciò che permette ad una maglietta che ha cucito sopra il logo Lacoste di costare dieci o quindici volte di più della stessa maglietta senza marchio. Le grandi aziende hanno così esternalizzato la maggior parte delle loro attività produttive – appaltata a fornitori terzi in Viet Nam, nelle Filippine o in Cina e a cui spetta il “lavoro sporco”, ovvero quello della produzione materiale, riducendo così il proprio ruolo a quello di strateghi di marketing o “venditori d’aria fritta”, ovvero quei valori e quelle sensazioni che permettono al marchio di esistere e di pretendere per sé stesso la fetta più grande della torta. Questa rivoluzione ha portato alla fine della logica del lavoro a tempo indeterminato per gli operai (categoria lavorativa sempre più desueta) e anche per gran parte degli impiegati (i servizi come la contabilità vengono ormai esternalizzati dove “la manodopera costa meno”), che si sono dovuti riciclare nel terziario alla ricerca di posti di lavoro per lo più mal pagati e comunque precari (l’esercito di commesse da supermercato con contratti di sei mesi, i giovani demotivati che passano le proprie giornate a rompere le scatole agli italiani dai vari call center – ma si inizia a esternalizzare anche quelli –, i tecnici licenziati e che ora lavorano con partiva iva affinché l’azienda non debba pagare loro ferie e malattie, eccetera).
Nel frattempo, le fabbriche produttrici, spesso gestite un complicato giro di appaltatori e sub-appaltatori (creato ad hoc per mascherare il più possibile il coinvolgimento con i grandi marchi sfruttatori), per accontentare le richieste dei manager delle grandi multinazionali (ossessionati dai bassi costi di produzione, requisito per poter poi liberare budget sempre più consistenti da destinare alle attività di marketing) si trovano a sfruttare i lavoratori in condizioni di lavoro terribili, dove il salario corrisposto è ai limiti della sussistenza (ma molte volte non basta nemmeno per potersi permettere un pasto decente, come ha ben dimostrato Naomi Klein in No Logo), gli straordinari sono la regola e quando le commesse si fanno consistenti possono durare anche per notti intere (portando poi alcuni lavoratori alla morte per stress). Ovviamente non esiste nessuno standard di sicurezza sul lavoro (prova ne sono i frequenti incendi) e sono vietati i sindacati. A tutto questo occorre aggiungere il mancato rispetto di nessuna delle più basilari norme ambientali – il 70% dei rifiuti industriali dei paesi emergenti va a finire direttamente nei fiumi o nelle falde acquifere.
In questa globalizzazione sempre più assurda (per la povera gente e la classe media, piccoli imprenditori compresi), le nostre imprese più piccole sono obbligate a chiudere i battenti o a seguire anch’esse il comportamento delle varie Nike, Apple o FIAT, mentre nel frattempo la nostra economia viene invasa dal dogma liberista che richiede ulteriori privatizzazioni (ovvero la svendita delle nostre aziende agli investitori esteri, Telecom, BNL e Alitalia solo per citarne tre facili facili) e tagli alla spesa sociale (i continui tagli a istruzione e sanità ne sono un bell’esempio) per sorreggere il peso dell’enorme debito pubblico, che rischia sempre di schizzare alle stelle non appena i vari governi italiani si dimentichino dei dogmi liberisti. Per non dimenticare della necessità di essere competitivi a tutti i costi con i lavoratori cinesi, indiani e vietnamiti, e quindi si inseriscono nuove forme di contratti del lavoro che portano alla precarizzazione e la destabilizzazione della vita del lavoratore, senza che esso abbia diritto a veder pagate ferie e malattie (nel contratto di lavoro a chiamata il lavoratore non può rifiutare “la chiamata” del datore di lavoro, che può quindi avvenire in qualsiasi momento, pena la risoluzione del contratto).
In tutto questo, l’Italia, o meglio la classe media italiana, si sta impoverendo, le aziende chiudono, la bilancia dei pagamenti con l’estero ha svoltato in negativo a partire dagli anni Duemila (ovvero da quando si è passati nella globalizzazione 2.0, con l’entrata della Cina nel WTO) e tutto questo al prezzo dell’aumento dell’inquinamento (le emissioni di anidride carbonica per spostare le merci prodotte e assemblate in giro per il mondo e poi rivendute ai consumatori italiani) e dello sfruttamento dei lavoratori del Terzo Mondo.
Fermiamo questo tipo di globalizzazione: propongo di creare una legge che vieti le importazioni di merci che siano state prodotte violando gli standard europei in materia tutela dei lavoratori (un salario che permetta di vivere una vita dignitosa, la sicurezza sul lavoro, il diritto allo sciopero e ad organizzarsi in sindacati, una settimana lavorativa di non più di quaranta ore lavorative e via dicendo) e tutela dell’ambiente (ma gli stessi standard italiani potrebbero non essere sufficienti come ci dimostrano le tante tragedie ambientali di casa nostra). Considererei anche la possibilità di imporre una carbon tax che vada a calcolare la distanza da cui provengono le merci, perché non è accettabile che per un milanese che va a fare la spesa risulti conveniente comprare i limoni argentini (che provengono da 18.000 chilometri di distanza) piuttosto che quelli siciliani (i migliori al mondo come qualità), perché il carburante usato dalle grandi navi che muovono i container non viene tassato in nome del libero commercio.
Fonte: frontediliberazionedaibanchieri.it