Non un taglio netto agli stipendi per i vertici della Banca d’Italia, ma solo qualche “sforbiciata”. Secondo le recenti decisioni del Consiglio Superiore di Via Nazionale la retribuzione annua del governatore Ignazio Visco calerà da 496mila a 450mila euro lordi all’anno, con una diminuzione di 46mila euro. La remunerazione del direttore generale Salvatore Rossi passerà da 450mila a 400mila euro. Troppo poco per il presidente di Adusbef (Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari), Elio Lannutti che in una nota, nei giorni scorsi, ha definito il sacrificio <insufficiente e provocatorio in una fase di gravissima crisi economica per il Paese>.
Resteranno invariati i compensi dei vicedirettori generali della Banca d’Italia, che ammontano a 315 mila euro annui. Cifre astronomiche per la “gente comune” e numeri eccessivi anche per il governo che, con il decreto sulla riduzione degli stipendi dei manager pubblici aveva fissato, lo scorso aprile, un tetto di 240mila euro annui a tutti gli stipendi statali.
Tuttavia, Bankitalia ha deciso di non adeguarsi giustificando la sua decisione in virtù dell’indipendenza finanziaria dell’Istituto di via Nazionale. Sebbene la Banca d’Italia sia riconosciuta come “istituzione dello Stato italiano” - motivo per il quale la nomina del governatore avviene con decreto del presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia -, è una società a capitale privato. Ma lo schiaffo ai “cittadini normali”, milioni dei quali vessati dai debiti e disoccupati, resta sonoro. Finora il governatore della Banca d’Italia Visco ha guadagnato 496.000 euro all’anno, più del presidente della Bce, Mario Draghi, (375.000 euro l’anno) e del presidente della Federal Reserve, Janet Yellen (346 mila euro l’anno).
Ma gli stipendi stellari dei vertici di Bankitalia sono solo la punta dell’iceberg di quello che l’economista Alberto Bagnai ha chiamato un nel suo libro “Il Tramonto dell’Euro” (ed. Imprimatur – 2012), in riferimento al cosiddetto “divorzio” avvenuto tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro nel 1981, un provvedimento ufficialmente giustificato dall’obiettivo di controllare le dinamiche inflattive prodotte a partire dallo shock petrolifero del 1973 e seguite all’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME), ma che ebbe effetti devastanti sull’economia italiana. .
Prima del “divorzio” la Banca d’Italia si impegnava ad acquistare tutti i titoli non collocati presso gli investitori privati. Un sistema che garantiva il finanziamento della spesa pubblica e la creazione della base monetaria che provvedevano alla crescita dell’economia reale del Paese. In seguito alla separazione tra la Banca d’Italia il Tesoro, lo Stato italiano dovette invece collocare i titoli del proprio debito pubblico sul mercato finanziario privato a tassi d’interesse molto più alti, e con un conseguente indebitamento estero maggiore.
Secondo Marco Saba, direttore di ricerca presso il Centro Studi Monetari di Milano (http://www.studimonetari.org/), privatizzazione della Banca d’Italia, diventata ufficiale con il decreto Imu-Bankitalia del gennaio 2014, sta nel fatto che tutte le sue proprietà, che appartenevano allo Stato italiano, tra cui le riserve della Lira, non sono state restituite al Ministero del Tesoro. Così le 2.700 tonnellate d’oro, gli 800 immobili e le riserve valutarie della Banca d’Italia che andavano restituite allo Stato italiano sono state lasciate in eredità agli stessi banchieri che si sono appropriati di una massa enorme di denaro pubblico. Con la privatizzazione della Banca d'Italia non solo si è fatto un “regalo” ai banchieri di 7.5 miliardi di euro in virtù della rivalutazione delle quote voluta dal governo con il recente decreto, ma si è consegnato alla Banca d’Italia un patrimonio che vale almeno 700 miliardi di euro>.
Fonte: lantidiplomatico.it