Nel mio libro I Serial Killer: Un Approccio Psicologico Giuridico ho parlato dell’interesse morboso verso la figura dell’omicida seriale e i suoi crimini da parte dei mass media e dell’opinione pubblica. (Buttarini, 2007)
La stessa morbosità è riscontrabile a mio parere per la cronaca nera in generale. C’è chi parla, come Enrico Gregori, di esorcismo. Il cronista, autore di un noir dal titolo Un Tè Prima di Morire frutto della sua esperienza di cronista di nera, in un'intervista di Fausta Maria Rigo, afferma che "(...) Vedere, scandagliare, capire la morte altrui è una specie di barriera che tiene la morte lontana da noi. (...)"
Personalmente come psicologo condivido certamente questo punto di vista, ma non credo che sia sufficiente per spiegare le punte di morbosità che ha raggiunto l’interesse per la cronaca nera. Credo ci sia dell’altro dietro la spettacolarizzazione del male che su questa morbosità vive e si alimenta: nel lato più oscuro della psiche umana non alberga soltanto la paura della morte che attraverso i fatti di cronaca nera verrebbe così esorcizzata, ma anche desideri necrofili inconfessabili e istinti di morte che attraverso la cronaca nera vengono vissuti. Voglio dire che non tutti si identificano con le vittime ma una parte del pubblico di spettatori si identifica con il male che gli autori dei crimini incarnano.
Soprattutto in fasce d'età come quella adolescenziale il rischio di identificarsi con modelli negativi sui quali proiettare la propria rabbia e smania di ribellione è molto alto, a maggior ragione quando ad usufruire di certi contenuti mass mediatici sono ragazzi dalla personalità già di per se problematica.
Faccio riferimento qui alla rischiosa possibilità dell’innescarsi di meccanismi diimitazione ed emulazione (v. correlati) già visti nel passato, uno per tutti l’esempio del lancio dei sassi dal cavalcavia, ma anche in tempi più recenti l’omicidio commesso da una ragazza in Francia che disse di essersi ispirata all'omicidio di Meredith commesso a Perugia.
E’ anche per questo motivo, ma non solo, che i giornalisti, i cronisti e i mass media nel loro complesso hanno una grande responsabilità, e il mondo dell’informazione deve essere consapevole del potere che detiene e di quanto questo potere possa influenzare le menti delle fasce di popolazione più deboli: mi sto riferendo ai minori ma anche a personalità disturbate che di fronte a una certa spettacolarizzazione, sottoposta al bombardamento massmediatico potrebbe venire influenzata negativamente tanto da poter essere irretita, e addirittura istigata.
Infatti la nostra civiltà è caratterizzata da un desiderio e un bisogno di protagonismo mai visto prima, e questo è particolarmente evidente tra i giovani: essere protagonisti significa essere visti apparire sotto i riflettori, arrivare al successo, essere riconosciuti,esistere finalmente dopo un’esistenza caratterizzata dal vuoto esistenziale, dalla noia, dal niente. Perché se non vai in televisione non sei nessuno. I modelli di riferimento di molti teenager della civiltà odierna infatti sono personaggi, non persone; personaggi che esistono solo attraverso la spettacolarizzazione e la mitizzazione di un modello di vita che non è più sorretto dal concetto del sacrificio, del desiderio ma al contrario deltutto e subito. Certe trasmissioni televisive è questo il messaggio che lanciano: la facilità del diventare famosi. Se riesci a entrare in quel circo delle meraviglie allora da nessuno riuscirai ad essere qualcuno, tutti ti riconosceranno e acquisterai lo status simbol del successo. Qualcuno purtroppo farebbe di tutto per arrivarci anche a costo di gesti estremi, perché l’incertezza e la vacuità di identità fragili e inconsistenti può portare ad una distorsione della realtà tale da portare alla perdita di un equilibrato esame di realtà come espressione di un disagio profondo a cui chi aveva il dovere di dare risposte ha fallito nel suo compito, lasciano molto spesso i giovani in balia delle loro pulsioni e della loro solitudine di fronte ad uno schermo vuoto che sembra poter dare tutte le risposte.
Ecco che cosa scrive Maurizio Parodi rispetto al tema dei minori e televisione:
"A proposito di 'ordinarie follie': è per noi del tutto normale che i bambini vedano i programmi seguiti dai genitori: il telegiornale, per esempio, che si è trasformato in un bollettino di guerre, cui fanno da irrinunciabile corollario le notizie di cronaca nera, le uniche (si direbbe) ad avere rilevanza mediatica; sconcertanti giacché si indulge con accanimento morboso, voyeuristico, alla spettacolarizzazione degli eventi più efferati e macabri (...) "
Ma lo stesso vale per taluni programmi cosiddetti di servizio e molti altri di intrattenimento (medesimo scopo, però più onestamente dichiarato), nei quali si inscenano farse e tragedie domestiche, drammi spesso fasulli, inventati e recitati – il contrabbando dei sentimenti finti – che comunque strumentalizzano le persone senza remore e decenza, istigando gli ospiti e il pubblico a dare il peggio di se; si espongono lubricamente frustrazioni e turbamenti, con l’irruzione del privato, dei fatti personali(vostri, perciò nostri, dunque di tutti) dell’intimo sul palco mediatico, instillando una visione condominiale del mondo.
E i bambini…
E i bambini…
Siamo riusciti a inventare la 'TV del dolore', dal cui gorgo sono proliferate le ignobili e compiaciute brutture delle trasmissioni verità, spesso reality show sotto mentite spoglie giornalistiche, deontologicamente giustificate per il loro carattere, appunto, di servizio. Forse a molti è sfuggito l’impegno delle trasmissioni dedicate alla strage dell’11 settembre 2001 che hanno aggiunto orrore all’orrore, riproponendo all’infinito le immagini della carneficina: i grattacieli in fiamme, l’aereo che esplode nell’impatto, le persone che precipitano, il fumo e le fiamme, indugiando con macabro compiacimento sui dettagli, dilatando i tempi della tragedia con il ricorso al ralenti, come nei peggiori film hollywoodiani. Non solo, alcuni canali hanno mostrato in parallelo scene di film catastrofici per enfatizzare la spettacolarizzazione dell’evento.
E i bambini…
E i bambini…
Molto spesso a sdoganare l’orrore sono proprio i giornalisti (televisivi), che si potrebbero ingenuamente ritenere più accorti, sensibili, colti e corretti dei colleghi intrattenitori, dai quali sono, invece, indistinguibili. Sono loro i padroni del reality show che costa poco e fa molta audience. Una strategia sottile e non priva di conseguenze, soprattutto per gli spettatori meno avveduti, dunque, in primo luogo bambine/i: si utilizzano i giornalisti come garanti della bufala, per accreditarla. Ma non meno inquietanti appaiono i tratti 'telegnomici' (da Grande Fratello) della TV totale, che esibisce materiale corporeo osservato dal buco della serratura catodica, e modelli esistenziali inconsistenti, divinizzati dall’apparizione sullo schermo.
E i bambini…
E i bambini…
Una televisione senza qualità, la quale rincorre gli istinti più beceri, li solletica, enfatizza o addirittura li induce, senza curarsi di conseguenze ed implicazioni, dei modelli sociali che diffonde, della cultura che alimenta (o forse proprio tesa alla decerebralizzazionedegli utenti), declinando ogni responsabilità, in omaggio all’unico valore riconosciuto: l’audience; perseguita ad ogni costo, spesso ottusamente, nel disprezzo aprioristico del pubblico (...)
Il Comitato per l’applicazione del Codice TV e Minori mette sotto accusa i telegiornaliperché mostrano troppi fatti di cronaca nera corredati da eccessive immagini raccapriccianti e troppo particolareggiate. Si evince inoltre che nell’anno 2007 sono stati sanzionati tutti i telegiornali delle principali televisioni pubbliche e private. (...) (Link)
Ma andiamo ora ad analizzare altri aspetti della complessità che caratterizza il fenomeno della spettacolarizzazione del male: nello specifico ora ci occuperemo di come i mass media e i giornalisti si occupano dei fatti di cronaca nera e di come un cattivo uso del diritto di cronaca potrebbe portare ad un abuso con ripercussioni negative sia sulla psiche degli utenti sia sul lavoro degli investigatori.
Luigi Bernardi (2003) si pone degli interrogativi sul delicato tema della trattazione degli omicidi da parte degli organi di informazione centrando l’attenzione sul come si raccontano e quali sono i rischi che portano alla distorsione della realtà fenomenica:
"[…] Il primo pericolo è quello di ridurli a 'gialli', è un pericolo di doppia natura, di approccio e di comprensione. Raccontando certi omicidi come fossero dei 'gialli' è inevitabile trasformare tutti i personaggi in figure di carta, senza spessore né odore, spogliarli di vita e dramma, renderli funzionali a quella che non è più una 'storia' ma un intreccio, equiparare momenti di sofferenza assoluta al gioco del 'se fosse'. In altre parole, dimenticare che da quella vicenda qualcuno non si è rialzato. Il secondo pericolo è che il meccanismo del giallo toglie al crimine il tempo suo. Da Rina Fort a Erika De Nardo sono passate generazioni, modi di vivere e di pensare. Il plastico del luogo del delitto, le figurine distese per terra, non aiutano a capire tale cambiamento, lo negano anzi con pervicacia, strappano la storia al suo contesto, la riproducono come un simulacro,l’effetto è quello di una bambola gonfiabile rapportata a un corpo umano: miserabile e beffardo." (...)
I problemi derivati da questo tipo di approccio sono due. Il primo è che la parola 'mistero' ha suggestioni fuorvianti, subito fa pensare a un qualcosa che intriga, a un gioco che appassiona, a una sfida intellettuale. La parola 'mistero' è dotata di una sorta di aura che nasconde, quanto meno confonde, le origini del fatto, del gesto, cui viene applicata, sovrapposta. (...) Provate a fare questo facile esperimento: pensate all’immagine che scaturisce dalla definizione “misteri italiani”, e poi a quella di “crimini italiani”: dalla prima sarete in qualche modo sedotti, dalla seconda tenderete a sfuggire, significa che la prima è una trappola, […] la seconda la verità con la quale stiamo disimparando a fare i conti. (...)
Pare esistano siti pornografici […] che offrono la possibilità di guardare l’interno della vagina ripreso da una microtelecamera posizionata sulla punta di un vibratore. L’idea, presumo, sia quella di mostrare il piacere da dentro. Altrettanto presumo che quello che si vede non abbia niente a che spartire con il piacere, ma si riveli soltanto una parete di carne di un colore fra il rosa e il rosso, umida, vagamente pulsante. Così è con i cosiddetti 'misteri', la lente di ingrandimento permetterà forse di scoprire un’impronta digitale, ma niente dirà dei pensieri, delle emozioni e delle intenzioni di chi l’ha lasciata. Di più, toglierà la prospettiva, ovvero la possibilità di esercitare lo spirito critico, sempre che ne sia rimasto. L’omicidio visto come 'giallo' appassiona lettori e telespettatori nel modo in cui qualcuno si eccita guardando una vagina dall'interno. Sono due facce della stessa medaglia, si chiama voyeurismo, è una perversione, qualcosa di fine a se stesso.
Ma soprattutto è un atteggiamento che ci fa perdere di vista il fatto, il gesto, il senso storico della loro realtà.
La televisione e i giornali quasi sempre ci offrono una visione del crimine deformata, plasmata sulla necessità di acchiappare audience, un esempio fra tanti è l’enfasi data a personaggi come i serial killer. In tutta evidenza, qui la responsabilità è da ripartire con gli esperti, i criminologi prima di tutti. Negli anni novanta era tutto un fiorire di interviste nelle quali lo specialista di turno ci raccontava che i serial killer era una figura criminale prodotta dalla civiltà industriale, tipica delle grandi metropoli, una figura in costante, irrefrenabile, crescita. […] Oggi si scopre che […] i serial killer si contano sulle dita di una mano, agiscono più che altro in provincia e, lungi dall’essere quei geni criminali che ci volevano far credere, sono poveri mentecatti che invece di pagare le prostitute le ammazzano […]. Tutt’oggi, il serial killer gode di un suo status privilegiato, i giornali appena possono – soprattutto quando non dovrebbero – infilano nei titoli frasi tipo “torna l’incubo serial killer”, si fanno trasmissioni televisive, si scrivono libri, si organizzano siti internet. […]
In un mondo dove tutto è sempre più finzione, l’omicidio è un dato reale, si conclude con qualcuno che muore, non ci sarà più. Invece se ne parla come finzione, si producono discussioni infinite, si fanno dibattiti televisividove l’unico assente è il gesto che uccide. E proprio perché si evita di guardare in faccia a quel gesto, e poi di collocarlo nel suo spazio e nel suo tempo, che si è costretti ad alzare le braccia, a non capire, a ricorrere a espressioni come dramma della follia, dramma della solitudine, adatte per ogni occasione, scatole vuote riciclabili all'infinito, che servono solo a far guadagnare stipendi e gettoni di presenza a chi le utilizza. […] E’ questo che fanno i media coadiuvati dagli specialisti a gettone: danno risposte sbagliate a domande prive di fondamento […] di certo potrebbe aiutare non nascondersi dietro le parole, non girare gli occhi dall’altra parte, chiamare le cose con il proprio nome, riacquistare il principio di realtà […]
Il male va affrontato nella sua lurida essenza, senza trasfigurarlo in qualcosa che non è. Scrivere di una bambina appena uccisa dalla mamma come di una angelo salito in cielo, oltre che un’atroce fesseria, è chiudere gli occhi, allentare persino la condanna morale del gesto che ha portato quella bambina ad avere ormai il corpo divorato dai vermi. E’ non vederli, quei vermi, fare finta che non esistano, convenire sulla loro irrealtà. Si dovrebbero invece guardare in faccia, tutti questi vermi della nostra contemporaneità, descriverli in ogni loro movimento, irriderli se occorre, schiacciarli se necessario. Forse non basterà, ma è il primo, necessario passo."
Luigi Bernardi, pagg. 143-154, 2003
Parole vuote quelle dei giornalisti e degli esperti che compaiono in televisione per parlarci di omicidi, senza sostanza e sentimento: ora vi chiedo io di fare un piccolo esperimento. Quando vi capiterà di nuovo di sentire un esperto pronunciarsi in televisione, e potete giurarci che purtroppo capiterà ancora e ancora, provate a concentrarvi non tanto su ciò che dice ma sulla tonalità affettiva che colora ciò che dice.A me sembra, la maggior parte delle volte, di cogliere una freddezza e un distacco emotivo che non tengono in considerazione il dolore, il sangue la morte, e anche una sorta di compiacimento intellettuale nello sfoggiare narcisisticamente la loro presuntaexpertise, che fanno letteralmente rivoltare le viscere vista la mancanza di rispetto per le vittime che ciò implica, senza considerare che la maggior parte di questi esperti, fautori tra i primi accanto a discutibili giornalisti, spesso non sono intervenuti sulle scene dei crimini che pretendono arrogantemente di conoscere e di poter risolvere.
Per amore di verità, invece, e questo è un altro aspetto fondamentale della questione presa in esame, non fanno altro, assieme alle trasmissioni a cui sono stati invitati a partecipare, che produrre confusione se non allarmismo tra le persone che li stanno ad ascoltare, e, ancora peggio, a volte rischiano anche di intralciare il prezioso lavoro degli inquirenti che dovrebbero poter condurre le loro indagini, già di per se emotivamente debilitanti, senza ulteriori pressioni, senza la luce assordante e mistificante dei riflettori che accecano e fanno perdere di vista il senso della realtà e dei confini.
(...)
Sintesi di un articolo pubblicato sul sito Psicologi Italia
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Fonte: anticorpi.info
Tratto da: http://www.nocensura.com/2014/11/la-spettacolarizzazione-del-male.html