Di redazione Stato e Potenza
Basta dare uno sguardo ai soli titoli di testate e siti-web di economia internazionale, nelle sezioni dedicate alle commodities, per rendersi conto che il prezzo del barile di petrolio che alcuni anni fa veleggiava su livelli record dando argomenti a profeti catastrofisti e complottardi del ‘Peak Oil’ (che vengono fuori come le termiti dalle travi a intervalli regolari, salvo ritornarvi quando la realtà dei fatti non si degna di venire incontro ai loro ‘Al Lupo, Al Lupo!’) abbia preso una tendenza al ribasso rispetto ai costi già molto diminuiti dall’inizio della Crisi con la conseguente recessione di molte economie occidentali.
Il barile di greggio a Novembre 2014 costa qualche spicciolo meno di 79 dollari Usa, contro i 105 $ di giugno scorso, i 111 di febbraio 2012 e i 116 di aprile 2011 (ed era al record storico di 145 dollari a febbraio 2008); un crollo di oltre 25 dollari nel giro di quattro mesi è ragguardevole, certo, non sono i sedici dollari (16 USD per barile) toccati nel Natale 1998, ma è sicuramente una diminuzione degna di nota.
Ma cosa l’ha causata? Diminuita domanda internazionale? Scoperta di nuovi enormi giacimenti? La ‘bolla’ dello Shale Oil? Tutte queste cause hanno contribuito, ma il motivo principale è molto più semplice e molto legato alla geopolitica dei recenti avvenimenti internazionali: Arabia Saudita e regni ed emirati assortiti della parte sunnita del Golfo Persico, tutti regimi conservatori più o meno fortemente legati agli Usa e ai loro interessi strategici, hanno cominciato a ‘lanciare’ sul mercato enormi quantità di petrolio, facendone precipitare (come è ovvio) il prezzo medio.
Lo scopo è uno solo: compiacere Washington (al costo di un sensibile decremento delle proprie entrate in valuta pregiata, solo parzialmente compensato dagli aumenti delle quantità estratte e vendute) e vibrare un colpo che Obama spera mortale alle economie dell’Iran, avversario geopolitico di scala regionale nei teatri mediorientale e centrasiatico, e soprattutto della Russia di Putin, che sempre di più negli ultimi quattro anni ha assunto posizioni nette contro i ‘pivot’ obamiani e le sue ‘manovre di contenimento’ ai confini stessi della Federazione di Mosca, come dimostrano le agende dell’espansione della NATO, degli ‘scudi antimissile’ in Europa Orientale e da ultimo il sostegno al nazi-golpe banderista di Kiev.
Questa strategia è efficace? Di primo acchito sembrerebbe di sì, e in effetti anche il calo di valore del rublo rispetto all’Euro e al biglietto verde parrebbe confermarlo, ma sotto la superficie appare chiaro che tale ‘attacco’ al portafoglio di Putin porta con sé costi profondi e conseguenze di lungo periodo che con ogni probabilità Washington non sarà in grado di tollerare molto a lungo.
In primo luogo questa ‘invasione’ di greggio arabo a buon mercato trancia l’erba sotto i piedi alla tossicchiante, claudicante e già traballante industria americana dello ‘Shale Oil’ sui motivi della cui instabilità e inevitabile scomparsa nel breve-medio termine esistono già molti ottimi articoli e analisi; inoltre un regime di idrocarburi a ottimo mercato nutre e rafforza oltremisura la locomotiva economica cinese e che Beijing abbia intenzione di sfruttare le ‘vacche grasse’ fino in fondo si vede dall’enorme numero di ordini piazzati da broker cinesi per quantità colossali di greggio (segno che si vogliono aumentare, e non di poco, le riserve strategiche), inoltre, in uno scenario economico mondiale in cui la Cina rimane una delle economie in maggiore crescita prezzi bassi del petrolio non fanno che rafforzare i suoi punti di forza e permetterle di guardare con ottimismo al futuro, qualcosa che Obama non può e non deve (dal suo punto di vista) lasciare accadere, non per troppo a lungo.
In seconda istanza colpire Mosca rafforzando Beijing sarebbe una mossa furba, o quantomeno sostenibile un po’ più a lungo, se la situazione tra le due grandi capitali eurasiatiche fosse quella in vigore dai tardi anni ’60 fino a tutti gli anni ’80, cioè di ostilità sottotraccia pronta ad esplodere in conflitti più o meno indiretti (Cambogia/Guerra Sino-Vietnamita) o persino diretti (Crisi dell’Ussuri), ma, (aggiungo io dal mio punto di vista ‘Per fortuna!’) le cose non stanno affatto così, anzi, l’Orso e il Dragone non sono mai stati in rapporti migliori di quelli attuali e l’enorme numero di accordi bilaterali siglati recentemente e l’accoglienza da Ospite d’Onore tributata a Vladimir Putin al recente vertice APEC ne sono testimonianze eloquenti.
In terzo luogo, e qui arriviamo a quello che personalmente ritengo essere il punto centrale della questione: questo attacco episodico ed estemporaneo agli interessi economici russi nel breve termine potrebbe portare (e per quanto mi riguarda sono praticamente certo che lo farà) la Russia a decidere di mettere la parola ‘fine’ una volta per tutte a quella che io chiamo la ‘Fase Africana’ della sua storia economica, fase che iniziò negli anni ’90 all’indomani del ‘Crollo del Muro’ e della disgregazione dell’URSS e dell’inizio della caotica, vergognosa parabola della cleptocrazia turboliberista di Boris Eltsin.
Nei piani delle multinazionali anglo-sion-americane lo spazio strategico una volta occupato dall’Unione Sovietica doveva diventare una specie di Jugoslavia Eurasiatica: un polverio di repubblichette e staterelli, meglio se dilaniati da conflitti interetnici (vedi Armenia-Azerbaijan col Nagorno-Karabakh) ove i trader occidentali potessero andare a fare ‘shopping’ di gas, petrolio, minerali pregiati a colpi di mazzette con cui ungere i corrottissimi dirigenti politici locali. L’ascesa al potere di Vladimir Putin pose un freno e uno stop a questo processo degenerativo che rischiava letteralmente di distruggere secoli di sviluppo della Civiltà e della Cultura russa come protagonista di primo piano delle vicende mondiali, ma ridare uno status globale al paese richiedeva grandi quantità di denaro liquido e Putin se lo procurò trasformando il proprio paese in un fornitore globale di petrolio e gas naturale.
Ma come ci insegna la storia le economie che si basano sull’esportazione massiccia di un paniere numericamente limitato di risorse naturali sono costituzionalmente vulnerabili alle manipolazioni dei mercati e agli attacchi “di sponda” proprio come quello tentato verso Mosca da Obama per tramite dei suoi lacché arabi sunniti; per ammortizzare e ridurre (e sperabilmente eliminare) questa intrinseca debolezza la Russia deve investire pesantemente nella diversificazione della propria economia.
Certo non sarà un percorso costellato di rose e fiori, ma i vantaggi economici e politici, pur se costosi e raggiungibili solo nel medio-lungo periodo sono così allettanti da non potere e non dovere essere sacrificati per nessuna ragione al mondo. La stessa Repubblica Islamica iraniana, Stato che partiva da una situazione estremamente peggiore di quella russa (si pensi all’Iran dell’immediato periodo post-rivoluzionario, assediato da un mondo ostile e direttamente attaccato da tutti i suoi vicini sunniti tramite il proxy di Saddam Hussein), dimostra che gli sforzi in questo senso pagano e mettono a vento da future minacce.
La Russia ha già diversi settori in cui l’eredità sovietica non é stata completamente distrutta e dissipata: la tecnologia nucleare civile (vedansi ad esempio i rapporti intessuti proprio con l’Iran, con la centrale di Bushehr e la prossima costruzione di altri due e più in là di altri sei reattori civili) e poi il settore delle armi (un ‘articolo’ sempre più ricercato in questi tempi turbolenti di multipolarizzazione vedi le trattative con Irak, Egitto, e le forniture potenzialmente molto promettenti a diversi stati della Latinoamerica, dell’Africa…), da qui si deve ricominciare e far tornare Mosca e la Federazione Russa una potenza economica tecnologica e manifatturiera, contro gli schemi e i piani che la vorrebbero, oggi come vent’anni fa, ridotta a una specie di Congo o di Brasile del secolo scorso senza altra strada per la sopravvivenza che non la svendita delle sue ricchissime risorse naturali.
In questo caso, potrà veramente dirsi che l’improvviso, irriflessivo, istintivo ‘colpo di testa’ di Obama (Presidente che come tutti gli Americani vive soggiogato dalla ‘Tirannia del Presente’) lungi dal ferire profondamente Putin e la Russia, avrà al contrario svolto il ruolo storico del ‘pungolo’ che spinge e indirizza nella direzione giusta, quella dello sviluppo tramite gli investimenti sul Lavoro e sulla re-industrializzazione.
Suleiman Kahani
Fonte: statopotenza.eu