L'ultima sorpresa - scrive Il Giornale in edicola oggi - e' che, a partire da questo mese, l'Unione europea ha chiesto all'Italia di aumentare il suo contributo ai conti con 340 milioni di euro ogni anno da aggiungere al conto da 17 miliardi. La penultima e' che con il regolamento 1169 in vigore da dicembre, ha eliminato l'obbligo di indicare sui prodotti alimentari lo stabilimento di lavorazione. Bel colpo! (si fa per dire)
Finte delocalizzazioni, prodotti alimentari senza certificato di provenienza, merci scadenti e tossiche importate dal Terzo mondo a prezzi stracciati: l'elenco delle leggi anti-italiane approvate da Bruxelles e' infinito. Provvedimenti che si fanno beffe delle nostre eccellenze produttive e che mettono in ginocchio la nostra economia.
Proprio mentre contestualmente la Ue butta dalla finestra soldi per corsi di educazione sessuale in Burundi e green economy in Egitto.
Sul fronte alimentare e' arrivata "l'ennesima batosta ai nostri produttori che saranno ammazzati dalle multinazionali e dagli importatori che potranno comodamente spacciare latte, carni e oli provenienti da chissadove e fatti chissacome. Per non dire del made in Italy, un marchio che vale 1,3 triliardi di dollari e che l'Ue si ostina a non voler riconoscere. Rendendo, invece, sempre piu' costoso per le aziende continuare a investire in Europa. Questa Ue è diventata un'immensa prigione con aguzzini a Bruxelles che odiano l'Italia.
Intanto, "in attesa di imbarcarla nel gran carrozzone, alla Turchia solo nel 2013 di euro ne sono stati assegnati 935 milioni. Tanti e ben camuffati nel burocratese di cui l'Ue e' maestra: questa volta alla voce Ipa, lo strumento di Assistenza preadesione con cui si finanziano generosamente i Paesi in predicato di entrare nell'Unione.
E vanno in Turchia, ma anche in Serbia che, in attesa di diventare membro, incassa, sempre nel 2013, altri 214 milioni. Mentre 118 sono quelli andati alla Bosnia-Erzegovina e ancora 118 quelli spillati dalla Croazia. Un buon aperitivo in attesa di sedersi all'eurobanchetto a cui pasteggiano in molti. Non l'Italia che in un bilancio da 140 miliardi e' il terzo contribuente dopo Germania e Francia, anche se la classifica per Pil pro capite ci mette al dodicesimo posto.
E 5,7 sono i miliardi che nel 2012 abbiamo versato in piu' rispetto a quanto ricevuto. Gravoso per i produttori italiani il fatto che la Commissione europea abbia sostituito i governi nazionali nel Wto, l'organizzazione che supervisiona gli accordi commerciali. Qui uno dei grimaldelli e' lo Strumento generalizzato preferenziale, grazie al quale i Paesi in via di sviluppo esportano i loro prodotti a condizioni daziarie piu' favorevoli. Il risultato e' che il riso di Cambogia e Myanmar sta uccidendo i produttori italiani.
Cosi' come il tessile in arrivo dal Pakistan e per il pescato (specialmente tonno) delle Filippine. Perche' per le nostre aziende e' impossibile competere con chi utilizza manodopera infantile, puo' liberamente inquinare e pescare senza rispetto degli standard internazionali.
Letale, soprattutto per i produttori dell'ortofrutta nel Sud Italia, e' anche l'accordo di libero scambio con il Marocco che taglia le tariffe di importazione. Una caporetto anche il capitolo del made in Italy, di cui Bruxelles continua a impedire la tutela, definendo una 'barriera commerciale' la richiesta dei nostri parlamentari di imporre regole chiare sull'origine dei prodotti. Norme che, invece, sono adottate negli Usa, in Canada, in Giappone e perfino in India e in Cina. E cosi' la contraffazione solo in Italia uccide 110mila posti di lavoro, con un minor gettito fiscale di 1,7 miliardi di euro.
Ma per Coldiretti, i dati per l'alimentare sono ancor piu' drammatici: perche' la falsificazione alimentare ci fa perdere 60 miliardi di euro, con uno spaventoso costo sociale di 300mila posti di lavoro. Con la debolezza dell'Europa che diventa un business per le agromafie che oggi fatturano 12,5 miliardi di euro all'anno. Il colpevole? Nel 2012 il 64 per cento dei prodotti contraffatti entrati nell'Ue proviene dalla Cina.
E i dati dell'illegalita' sono in aumento, vista l'incapacita' (o la non volonta') della Commissione europea di introdurre norme a tutela della produzione autentica e il tema delle 'indicazioni geografiche' e' ignorato. E lo stesso sembra accadere con il Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti: un accordo commerciale di libero scambio tra l'Ue e gli Usa che ancora una volta penalizzerebbe i nostri produttori, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in molti settori le barriere non tariffarie che dovrebbero limitare le importazioni.
Per difendere ad esempio l'ambiente o la sicurezza sanitaria, se non i nostri agricoltori e imprenditori.
Ci sono poi tutte quelle norme Ue che incentivano le aziende a cambiare Paese inseguendo condizioni piu' favorevoli. Con abusi e concorrenza sleale grazie al distacco dei lavoratori e alla libera circolazione delle professioni. Sempre piu' frequenti le finte delocalizzazioni di aziende scorrette che licenziano personale per assumere all'estero lavoratori a buon mercato, coperti da tutele contrattuali molto minori e i cui oneri contributivi sono facilmente aggirabili.
Con la beffa che spesso le aziende italiane corrette sono poi anche costrette a ripianare il deficit delle casse contributi generato dalle violazioni altrui. E l'Ue ha neutralizzato per l'Ispettorato del lavoro il controllo sulle frodi. Ora c'e' anche la direttiva 1307/2013 della Nuova politica agricola comune (Pac) con cui gli agricoltori italiani per 'livellare gli importi con gli altri Paesi', lasceranno sul campo (e' proprio il caso di dirlo) il 7 per cento dei contributi".
Detto tutto ciò - a prova di qualsiasi smentita - sorgerebbe spontanea una domanda: che ci stiamo a fare, nella Ue? Per farci derubare e massacrare dalle oligarchie di Bruxelles che ci disprezzano?
Ce n'è abbastanza per uscire sbattendo la porta.
Fonte: Il Nord