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di G.C.- articolotre.com
Era il 16 marzo del 1978 e, alla Camera dei deputati, era previsto il dibattito e il voto di fiducia per il quarto governo presieduto da Giulio Andreotti. Doveva trattarsi di un momento di fondamentale importanza sia per il segretario della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, che per l'Italia tutta: per la prima volta nella storia repubblicana, il Partito Comunista Italiano, infatti, avrebbe concorso direttamente alla maggioranza parlamentare che avrebbe sostenuto il nuovo esecutivo. Una manovra politica tutt'altro che semplice e guidata proprio da Moro, grazie ad uno scrupoloso lavoro di mediazione con il segretario del Pci Enrico Berlinguer.
Le cose, però, andarono diversamente. Moro uscì dalla sua casa, in viale del Forte Trionfale, poco prima delle 9.00 e salì su una Fiat 130, assieme a Domenico Ricci e Oreste Leonardi, due uomini della sua scorta. A seguire l'auto, un'Alfetta, con a bordo altri tre agenti: Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi. Il percorso più semplice per giungere a Montecitorio, dall'abitazione di Moro, era quello che prevedeva il passaggio in via Trionfale. Eppure, Moro e la sua scorta, quel giorno, presero un'altra strada: via Mario Fani, recandosi ignari all'appuntamento con la morte.
Una volta imboccata la strada, infatti, le due auto vennero prese in trappola, attraverso una tecnica denominata "a cancelletto": quattro vetture posizionate in punti strategici della via bloccarono il traffico, permettendo ad un nucleo armato di brigatisti procedere con quella che passò alla storia come"strage di via Fani".
Istanti di orrore e sangue: da dietro alcune siepi, sbucarono quattro uomini vestiti con uniformi del personale Alitalia, armati di pistole mitragliatrici, che aprirono il fuoco: si trattavano di Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli.
I colpi sparati furono 91, 45 dei quali uccisero gli agenti della scorta del segretario, che rimase, invece, solo lievemente ferito. A quel punto, Fiore, assieme a Moretti, lo fece uscire dall'auto, per farlo salire su una Fiat 132 che lo portò via, facendolo sparire fino al 9 maggio, quando Aldo Moro venne rinvenuto senza vita.
"Come potevano essere le Brigate rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da Via Fani?", s'è domandata infinite volte Eleonora Chiavarelli, la vedova di Moro, che per anni si è battuta alla ricerca di una verità sempre mancata, depistata e insabbiata. Una verità che ancora oggi, a 36 anni dal sequestro e dall'omicidio dello statista, fatica ad emergere. E' lecito, d'altra parte, domandarsi come mai, tra le quattro o cinque alternative di itinerario possibile, il segretario scelse proprio quello meno conveniente. E spunta così l'ombra di un "suggeritore", un qualcuno che indirizzò il politico e la sua scorta all'agguato delle Br. Un complice esterno, occulto; di quelli così abituali, nell'Italia delle stragi.
Secondo la verità giudiziaria, questo complice non è mai esistito. Le Br si trovarono in via Fani semplicemente perché Moro era un "abitudinario". Durante gli interrogatori compiuti quello stesso anno dai giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Galluci, gli agenti di scorta che il giorno della strage si trovarono a riposo o in licenza dichiararono che il percorso seguito da Moro, era "sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici". Sempre alla stessa ora, in quanto, a loro dire, Moro non sgarrava mai sulla puntualità.
Di fatto, sarebbe stato sufficiente alle Br pedinare per qualche giorno il segretario per imparare le sue abitudini e organizzare l'agguato, esattamente come confessarono Moretti, Morucci e Faranda.
Di fatto, sarebbe stato sufficiente alle Br pedinare per qualche giorno il segretario per imparare le sue abitudini e organizzare l'agguato, esattamente come confessarono Moretti, Morucci e Faranda.
Ma questa versione, per quanto acclamata (e, volendo, semplicistica), fu smentita dalla stessa vedova di Moro: "Non posso affermare che mio marito sia stato un abitudinario". "Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta", aveva esplicato la donna, mancata nel 2010, al giudice Gallucci. "Essi sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata." Inoltre, quella di via Fani non era assolutamente la strada più veloce per raggiungere il centro di Roma.
"Faccio altresì presente", aggiungeva la signora Chiavarelli, "che mio marito non faceva di solito la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta." Una versione confermata anche dalla figlia Agnese, che ricordava come il padre cambiasse spesso i propri percorsi, e li scegliesse al mattino.
Tre giorni dopo le dichiarazioni della vedova, due degli agenti di scorta smentiti furono convocati dallo stesso Gallucci per un interrogatorio. Ci si sarebbe aspettato, quantomeno, un contradditorio mirato a far luce su testimonianze tanto divergenti, ma così non fu: nei verbali di quell'occasione, infatti, non si cita mai alcuna richiesta di chiarimento in merito. Così come assente risulta un documento fondamentale, per ricostruire la verità di quel giorno: il diario della sala operativa del Viminale, laddove venivano annotate tutte le comunicazioni con le auto di scorta e, conseguentemente, tutti gli orari e i percorsi. Una prova essenziale, più volte richiesta anche dalla Commissione parlamentare d'inchiesta, ma che non venne mai trasmessa, rendendo inutili e vani i solleciti.
Nel '92, il comitato scriveva: "La mancanza negli archivi del Viminale di tutta la documentazione non trova alcuna plausibile giustificazione". "Si conferma una costante dell’“affare Moro”", ovvero: "prove importanti sulla gestione della crisi sono sottratte agli organi istituzionali, ma non è escluso che altri ne disponga e le utilizzi o minacci di farlo nel momento più conveniente".
E' sempre stato detto che lo Stato si era trovato assolutamente impreparato a emergenze simili a quella del rapimento di Moro. Eppure, nel 1978, le Br erano già una realtà più che conosciuta, attive da otto anni, e avevano già ucciso, sequestrato e terrorizzato l'Italia intera. Eppure, nel '92, l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi spiegò che quella verificatasi era stata "una situazione di debolezza neanche lontanamente sospettabile". "Perciò", aveva aggiunto, "vedendo in retrospettiva come fu condotta la gestione del sequestro Moro, posso dire che essa fu del tutto artigianale e non adeguata alla situazione".
Proprio grazie a quella inadeguatezza, i brigatisti erano riusciti a rapire e far sparire Moro. Le ricerche brancolavano del buio, finché uno spiraglio di luce non apparve in una circostanza quantomeno ridicola: durante una seduta spiritica, a cui partecipò anche Romano Prodi, venne domandato al "piattino" dove si trovasse il segretario. Imprevedibilmente, uscì la parola "Gradoli" e Prodi, nonostante l'imbarazzo, la riferì ai vertici della Dc. "Se soltanto qualcuno avesse detto di conoscere Gradoli, io mi sarei guardato bene dal dirlo", spiegò il professore, durante un'audizione tenutasi nell'81. "È apparso un nome che nessuno conosceva, allora per ragionevolezza ho pensato di dirlo".
Qualcuno gli diede pure retta: peccato che le indagini si concentrarono nel paese di Gradoli e non, invece, in via Gradoli, dove abitava Mario Moretti, che negli stessi giorni si occupava di interrogare l'ostaggio.
Qualcuno gli diede pure retta: peccato che le indagini si concentrarono nel paese di Gradoli e non, invece, in via Gradoli, dove abitava Mario Moretti, che negli stessi giorni si occupava di interrogare l'ostaggio.
E dire che la vedova di Moro, appena emersa la notizia, richiese esplicitamente che venisse cercata una strada, a Roma, con quel nome: "La risposta che ancora oggi mi lascia senza parole è stata: 'Non c’è nelle pagine gialle!'", riferì poi in Parlamento. La storia (e l'evidenza) dimostrano invece che c'era, così come c'erano anche i brigatisti.
Il covo, però, venne scoperto solo il 18 aprile, quando stranamente in casa non c'era nessuno e Moretti poté dirsi salvo. Egli "stabilì con qualcuno una convenienza reciproca per la gestione del sequestro, e ha potuto viaggiare tranquillo per l’Italia senza che nessuno lo fermasse", commentò al riguardo Guerzoni, ex collaboratore del segretario. "Nessuno ha avuto interesse a trovare Moro".
Così come nessuno ha mai avuto interesse a salvarlo.
Così come nessuno ha mai avuto interesse a salvarlo.
Fonte: articolotre.com
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