Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia
dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste
sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito
contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla
perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto
la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato.
Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la
differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.

Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur
con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment
democristiano.
Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità
nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono
gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e
dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate
parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la
più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e
Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il
braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del
segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è
perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li
alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è
ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora
manifestata al suo peggio.

Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi
telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In
questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta
inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della
tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle
richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere
barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del
resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi
liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette
radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia
un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai.
Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.
L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è
sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un
marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie
multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali
pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del
tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi.
Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro
volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta
succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto
divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà
definito il “sistema
misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli
anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si
passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con
l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di
telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.

Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché.
Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo
con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia
finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici
Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a
Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza
molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità.
L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è
analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio,
ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco
utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in
modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.
La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e
di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes,
London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente
il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si
comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e
miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti
tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati
diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e
sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre
ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie
patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e
conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e
Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si
contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori
d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle
compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il
bottino).
Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei
suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque
appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più
bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a
lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e
individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare
con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i
satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente
un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino
al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in
Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione
tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre
più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.

Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad
intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze
informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv,
Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è
finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra
loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in
seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti
sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi
sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni
programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva
soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite
dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.
Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti.
Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di
business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di
sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è
la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge.
Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente
alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione.
La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e
perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita
di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e
product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande
novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi
addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero
protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da
trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.

È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non
italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima
Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a
notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere
abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano
della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a
cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi
getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori
cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio
continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a
questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande
fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione
analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del
digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per
abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.
Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti
siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social
network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi
i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie
internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero.
Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far
fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno
lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione.
La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione
del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv
occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano
con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i
suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets,
etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in
discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.

La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro
elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e
diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto
controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv
non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i
canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa.
In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico
colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con
una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre:
resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai
vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle
risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente
ventilata – che nel prossimo rinnovo
di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri
soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.
È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti
dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur
di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle
élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli
strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le
automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia
comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni
globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai
ovviamente nell’Olimpo dei grandi media
insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai
chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai
goduto nel secolo scorso.
(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).
Fonte:
libreidee.org