Di Marco Fortis
In due mosse Berlino ha dato scacco ai partner latini usando la nascita dell’euro e i parametri di Maastricht. E’ del tutto falso che la forza dei tedeschi sia nell’export verso gli Stati che stanno vivendo una fase di espansione. I surplus commerciali sono cresciuti prima che cominciasse la grande crisi, soprattutto grazie alla moneta unica. Dal 1999 al 2007 l'import tedesco di merci italiane è volutamente calato in tutti i settori produttivi. Dal 2008 in poi Berlino è riuscita inoltre a finanziare a basso costo i propri crescenti disavanzi a scapito dei Paesi mediterranei. L’esposizione della Germania verso l’estero è cresciuta di 345 miliardi. E l’Italia passava per sorvegliata speciale. Nonostante i sacrifici fatti dalle famiglie italiane la Ue non è ancora soddisfatta.
Euro, così la Germania ha fregato l'Europa
L’Italia ha oggi un assoluto bisogno di un governo stabile e credibile che ci guidi fuori dalla crisi ma che, soprattutto, sappia finalmente imporsi a Bruxelles per contestare i parametri europei. Parametri che certificano le presunte virtù e manchevolezze dei vari Paesi: parametri rigidi, niente affatto rigorosi sul piano metodologico ed in gran parte anacronistici, che si sono dimostrati sul campo vantaggiosi solo per la Germania e il Nord Europa a tutto svantaggio dell’Italia e dei Paesi dell’Europa Latina.
Nel 1998, prima che cominciasse l’era dell’euro, la Germania era la «malata d’Europa», col Pil che cresceva molto meno di quello italiano. Le famiglie tedesche, dopo la riunificazione delle due Germanie, erano super-indebitate. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie tedesche era di appena 1.796 miliardi di euro contro i 2.229 miliardi delle famiglie italiane. Il debito pubblico tedesco del 1998, se espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie anziché del Pil, era di gran lunga più elevato (66%) di quello italiano (56%). Il rapporto debito pubblico/Pil è stupido almeno quanto i parametri di Maastricht ed in questi ultimi anni è servito a nascondere la reale sostenibilità dei debiti di molti Paesi ed a metterne in croce altri, in particolare l’Italia, eterna pecora nera ben al di là dei propri demeriti.
LA CRESCITA
Sempre nel 1998, la posizione finanziaria netta internazionale della Germania (cioè lo stock di attività nette private e pubbliche verso l’estero) non era affatto quella del «gran creditore» che Berlino è oggi, ma una cifra molto modesta, pari allo 0,4% del Pil. Nello stesso anno, la bilancia commerciale della Germania era in attivo per 64 miliardi di euro, il più alto surplus dell’Ue. Ma anche la bilancia italiana lo era, per 24 miliardi, il che ci poneva al secondo posto. Tuttavia, se all’Italia del 1998 ciò poteva anche bastare, l’attivo con l’estero di allora non permetteva a Berlino di navigare nell’oro, visto l’alto debito pubblico e privato tedesco, la domanda interna asfittica ed un tasso di disoccupazione al 10,2%. Poi tutto improvvisamente è cambiato. E’ iniziata l’era dell’euro e dei parametri di Maastricht, che la Germania ha interpretato totalmente a proprio beneficio, usando l’uno e gli altri strumentalmente per accrescere la sua forza (talvolta non rispettando sfacciatamente i secondi come nel quinquennio 2001-2005, quando il deficit statale tedesco rimase costantemente sopra il 3% del Pil). Descriveremo nel seguito le due mosse micidiali con cui la Germania ha dato scacco matto all’Europa Latina, ed in particolare all’Italia.
Cominciamo, innanzitutto, ad esaminare ciò che è accaduto nel periodo 1999-2007. La vulgata a cui quasi tutti hanno creduto – e che in Italia abbiamo bevuto più di tutti gli altri - è che le riforme di inizio Millennio abbiano reso grande la Germania. Certo, le riforme, a cominciare da quella del mercato del lavoro, hanno contribuito a rilanciare l’economia tedesca, ma in confronto all’euro esse hanno giocato un ruolo minimo. Ciò che ha reso davvero ricca e creditrice la Germania verso l’estero, mettendola nelle condizioni di dettare oggi legge in Europa, è stato l’euro, non le riforme e tantomeno la crescita del Pil. C’è una cifra chiave che spiega il dominio attuale della Germania: tra il 1999 e il 2012 il surplus bilaterale commerciale cumulato di Berlino con i 5 principali Paesi del Sud Europa (Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) è ammontato a circa 840 miliardi di euro. E’ grazie a questo bottino che la posizione finanziaria netta sull’estero della Germania è cresciuta sino a toccare nel 2012 il 41,5% del Pil. Inoltre, grazie al surplus con questi Paesi la Germania ha potuto sopportare il rincaro della bolletta energetica quasi senza accorgersene.
Un altro pilastro della vulgata che ci è stata propinata in tutte le salse è che la forza della Germania dipenda dalla sua capacità di vendere ai Bric e che sarebbe proprio questa la prova più evidente della competitività di Berlino. Ma la realtà è ben diversa. Nel 2007, infatti, la Germania aveva un deficit commerciale verso i Bric di 15 miliardi di euro ed un surplus verso i Paesi del Sud Europa di 84 miliardi (grazie all’euro, naturalmente)! Nel 2012 la bilancia tedesca con i Bric è finalmente diventata attiva per 13 miliardi ma quella con i Pse resta di gran lunga maggiore, nonostante l’austerità, pari a 56 miliardi.
I surplus tedeschi con i Pse sono cresciuti soprattutto prima della crisi mondiale scoppiata nel 2008, cioè dal 1999 al 2007, quando il tasso di cambio fisso dell’euro ha aiutato notevolmente le esportazioni tedesche in una fase di protratto aumento della domanda estera. Per di più, in tale periodo la Germania ha anche fortemente ridotto l’import di beni tradizionali pregiati dai Pse sostituendoli opportunisticamente con prodotti a basso costo provenienti dalla Cina. Una manovra perfetta, quasi da tattica militare, naturalmente sempre a discapito dei Pse. Infatti, mentre la grande industria tedesca vendeva incontrastata le proprie auto di lusso ai Pse approfittando del cambio fisso dell’euro, la grande distribuzione germanica lucrava anch’essa il massimo profitto proponendo ai tedeschi, stremati dai debiti e dai bassi salari imposti dalle riforme, beni di consumo importati dalla Cina, avvantaggiandosi, in questo caso, del rafforzamento dell’euro sullo yuan. E non è un caso che per difendere i suoi importatori la Germania si sia sempre opposta all’etichettatura di origine obbligatoria sui prodotti provenienti dai Paesi extra-Ue.
I NUMERI
Ecco alcune cifre in sintesi (che l’opinione pubblica, e non solo tedesca, non conosce): dal 1999 al 2007 le importazioni di auto dei «generosi» Pse dalla Germania sono aumentate di 20 miliardi di euro, quelle di farmaci di 3,4 miliardi e quelle di apparecchi elettrici di 5,3 miliardi. Ma intanto le «ingrate» importazioni tedesche di abbigliamento dai Pse diminuivano di 1,1 miliardi (con un calo di 750 milioni dalla sola Italia); quelle di prodotti tessili di 731 milioni (-362 milioni dall’Italia); quelle di calzature di 624 milioni (-302 milioni dall’Italia); quelle di mobili di 383 milioni (-302 milioni dall’Italia). Nello stesso periodo le importazioni tedesche di abbigliamento dalla Cina sono cresciute di 3,3 miliardi, quelle di prodotti tessili di 662 milioni, quelle di calzature di 664 milioni e quelle di mobili di 817 milioni, solo per fare alcuni esempi.
Qualcuno dirà: «È la globalizzazione, bellezza!» Niente affatto. Solo la Germania nell’Eurozona si è comportata così sfacciatamente verso i partner e soprattutto verso l’Italia. Infatti, dal 1999 al 2007 l’import francese di abbigliamento dall’Italia è cresciuto di 453 milioni di euro, quello spagnolo di 679 milioni e persino quello greco di 246 milioni! L’import francese di calzature dall’Italia è aumentato nello stesso periodo di 257 milioni; quello francese di mobili di 317 milioni, quello spagnolo di 254 milioni, quello portoghese di 31. E così via.
Appena nato l’euro, la solidarietà dei tedeschi verso i PSE è evidentemente finita subito dove cominciava il loro portafoglio. E ben prima che esplodesse il problema del debito sovrano greco.
(1/continua)
Quel debito tedesco che nessuno vede
Non paga di aver drenato immense risorse dal Sud Europa grazie all’euro dal 1999 al 2007 (si veda la nostra prima puntata), la Germania è riuscita anche a farsi finanziare a basso costo il proprio crescente debito pubblico durante l’attuale crisi. E ciò è avvenuto di nuovo soprattutto con flussi di denaro sottratti ai Paesi mediterranei e principalmente all’Italia. Vediamo come. Nel 2008, quando fallì la Lehman Brothers, il debito pubblico tedesco espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie (60%) era ancora assai superiore a quello dell’Italia (55%). Inoltre, nonostante il boom dell’export favorito dal tasso di cambio fisso dell’euro, il PIL tedesco era cresciuto molto poco dall’inizio del Millennio, con una domanda interna decisamente più fiacca di quella italiana. Sempre a fine 2008 la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane (2.946 miliardi di euro) era ancora notevolmente più alta di quella delle famiglie tedesche (2.770 miliardi), che pure sono numericamente molte di più di quelle italiane. E, a differenza delle banche italiane, le banche tedesche erano piene zeppe di titoli “tossici” americani. Il che avrebbe portato a salvataggi dolorosissimi, che hanno contribuito in modo determinante a far aumentare il debito pubblico della Germania di 287 miliardi di euro dal 2009 al 2010! Quando nel 2010 scoppiò la crisi del debito pubblico greco che presto avrebbe contagiato anche Irlanda e Portogallo, c’erano molte ragioni perché fosse la Germania, più che l’Italia, ad avere paura del futuro. Infatti, le banche tedesche, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, a fine settembre 2010 avevano esposizioni consolidate in Grecia per 40 miliardi di euro, in Irlanda per 154 e in Portogallo per 40, mentre quelle italiane ne avevano per meno di 5 miliardi in Grecia e in Portogallo e per soli 16 in Irlanda.
CONTI DI ROMA IN ORDINE
Nel 2011 l’Italia aveva sicuramente un presidente del Consiglio poco apprezzato all’estero, Berlusconi, ma un ministro dell’Economia, Tremonti, che a giudizio della stessa stampa internazionale aveva tenuto in ordine i conti pubblici durante la crisi. Prova ne è che a fine 2010 l’Italia poteva vantare il miglior bilancio statale primario dell’Eurozona, pari al +0,1% del PIL, dopo quello dell’Estonia (+0,3%), mentre la Germania era al -1,6%, la Francia al -4,7%, la Grecia al -4,9%, il Portogallo al -7%, la Spagna al -7,7% e l’Irlanda al -27,5%. In più, il debito pubblico italiano figurava tra quelli cresciuti di meno in termini monetari tra il 2008 e il 2010: +180 miliardi di euro. Più di tutti era però cresciuto il debito pubblico tedesco, di ben 405 miliardi! Davvero un pessimo biglietto da visita per la signora Merkel.
Ma ad aiutare la Germania e gli altri nuovi debitori (di qua e di là dell’Atlantico) a togliere le castagne dal fuoco c’era l’Italia, pronta come un agnello sacrificale su un vassoio d’argento. Complice la crisi del Governo Berlusconi, la cui credibilità toccò il fondo al G-20 di Cannes, l’Italia nel 2011 divenne l’epicentro universalmente percepito della crisi dell’euro e il Paese per eccellenza “too big to fail” da additare al mondo come la possibile causa di un eventuale naufragio della moneta unica. Tutto ciò in base al più classico dei parametri consacrati dagli accordi di Maastricht: il rapporto debito pubblico/PIL. Parametro che non potrebbe essere più stupido, se applicato all’Italia, visto che nel 2010 il nostro debito pubblico in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie, che è l’unica vera garanzia di stabilità finanziaria di una economia, era sì salito un po’, ma solo al 66%, cioè allo stesso livello della Germania, mentre la Spagna era balzata all’81%, l’Irlanda al 122% e la Grecia al 259%!
LA RICCHEZZA FINANZIARIA
A fine 2010, nonostante la crisi economica, l’Italia poteva ancora vantare una ricchezza finanziaria netta delle famiglie pari al 181% del PIL, contro il 125% della Germania, il 138% della Francia, il 76% della Spagna e il 57% della Grecia. Indipendentemente dai nostri oggettivi demeriti e dalla debolezza del Governo, è indubbio che nel 2011 fece comodo a molte altre economie che l’Italia entrasse nell’occhio del ciclone e che il nostro spread andasse alle stelle. Infatti, giusto o sbagliato che fosse, gli investitori internazionali abbandonarono rapidamente il nostro debito pubblico (che fino a quel momento aveva sempre garantito ottimi tassi di interesse e regolari pagamenti degli stessi), per andare a finanziare i debiti dei nuovi Paesi in affanno, in primo luogo la Germania stessa. Ma la più sorprendente cifra di cui non si discute, perché imbarazzerebbe molto la Germania, è che dal 2008 al 2012 i debiti pubblici esteri di 20 Paesi UE censiti dall’Eurostat, Italia esclusa, sono cresciuti complessivamente di 1.084 miliardi di euro, mentre il debito pubblico estero italiano è aumentato nello stesso periodo di soli 24 miliardi. Per contro, il debito pubblico estero tedesco è cresciuto nei quattro anni considerati di ben 345 miliardi, finanziato con comodi tassi di interesse ai minimi storici. In particolare, tra il 2010 e il 2012 il debito pubblico estero tedesco è salito di 120 miliardi di euro mentre quello italiano è diminuito di 104 miliardi. La seconda mossa con cui la Germania ha dato scacco matto al Sud Europa, dopo aver accumulato dal 1999 al 2012 un gigantesco surplus commerciale con quest’ultima grazie al tasso di cambio fisso dell’euro, è stata dunque quella di aver costruito mediaticamente il mito dell’Europa meridionale super-indebitata, incardinata su un’Italia perennemente “sorvegliata speciale”. In tal modo Berlino ha potuto più facilmente attrarre gli investitori verso il proprio debito pubblico e finanziare la sua crescente spesa pubblica “keynesiana”.
LE RICHIESTE DI BRUXELLES
Gli italiani hanno fatto sacrifici immensi durante questa crisi. Lo prova il fatto che la ricchezza finanziaria netta delle nostre famiglie, pur rimanendo tra le più alte al mondo, è scesa dal 2008 al 2012 da 2.946 a 2.787 miliardi di euro, mentre quella dei tedeschi – che pensano di essersi “dissanguati” per il Sud Europa – è invece cresciuta da 2.770 a 3.373 miliardi. Nonostante i “compiti a casa” che abbiamo eseguito, il commissario Rehn non pare però soddisfatto e vuole ora bocciare la nostra Legge di stabilità sulla base di qualche punto decimale di deficit/PIL e di debito/PIL in più. E’ tempo di spiegare a Bruxelles che il debito pubblico italiano, espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie, sta già diminuendo dal 2012 e continuerà a farlo anche nel 2013-14 indipendentemente dalle negative vicende del nostro PIL, tramortito dall’austerità che la stessa UE ci ha imposto. Inoltre, va spiegato a chiare lettere alla Germania che l’Italia ha un avanzo statale primario migliore del suo e che ha contribuito a salvare Grecia, Portogallo e Irlanda con un debito pubblico aggiuntivo che è stato finanziato esclusivamente dagli italiani stessi. La Germania che attinge denaro dal Sud Europa (ma si sente “vittima”), che contesta Draghi, che si oppone agli eurobond e non vuole che la vigilanza bancaria europea ficchi il naso nelle sue scassate banche locali va finalmente messa di fronte alle sue responsabilità e alla sua totale mancanza di solidarietà.
Fonte: economia.ilmessaggero.it