venerdì 28 febbraio 2014

Piccolo vademecum sulle rivolte moderne (Ucraina, Siria e non solo)

PICCOLO VADEMECUM SULLE RIVOLTE MODERNE (UCRAINA, SIRIA E NON SOLO)
Il format andato in onda in Ucraina ha trasposto in Europa molti dei tratti distintivi che l’opinione pubblica mondiale ha già imparato a conoscere precedentemente in altri Paesi.
La presente analisi non si concentrerà tanto sui motivi di questa ondata globale di rivolte e (pseudo)rivoluzioni, quanto sulle peculiarità ricorrenti, in particolare quelle mediatiche. Quel che è certo è che stiamo assistendo a quello che l’eminente geopolitico statunitense Zbigniew Brzezinski aveva predetto già diversi anni fa: il “risveglio dei popoli”. Un ruolo fondamentale in questo processo è ricoperto dall’”internetpolitik”, cioè dallo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione che annullano ormai non solo le distanze fisiche, ma anche quelle “mentali”.
La circolazione delle idee è istantanea e di fatto rappresenta una nuova ondata del fenomeno della globalizzazione moderna (partita negli anni ’90 in ambito economico e finanziario). Si potrebbe definirla quasi “globalizzazione delle coscienze”. Il risultato è un ribellismo confuso e privo di ideologie di base, fondato su una critica radicale al potere in quanto tale senza però alcun progetto chiaro e costruttivo per il dopo. Anzi, molto spesso queste forze (pseudo)rivoluzionarie per quanto motivate e militanti non solo non rappresentano la maggioranza della popolazione dei rispettivi Paesi, ma sono addirittura minoranza anche all’interno della galassia dell’opposizione.
Si pensi alla Siria: le prime proteste, tanto mitizzate dall’Occidente, erano sì all’insegna di una confusa lotta ala corruzione e volontà di modernizzazione sociale e politica immune da fondamentalismi religiosi, ma quanto erano effettivamente rappresentative della realtà del Paese? I social-network hanno rivoluzionato il modo di pensare il rapporto con la sfera pubblica anche nelle aree del mondo non ancora contagiate dal virus della “società aperta” definita da Karl Popper, ma queste avanguardie sono destinate (perlomeno oggi) ad essere messe in minoranza da realtà sociali ancora ben distanti dai loro parametri.
L’esempio migliore in questo caso resta l’Egitto. Le proteste contro Mubarak di inizio 2011 portavano in piazza coacervi di individui e gruppi assolutamente eterogenei, con agende politiche spesso inconciliabili (o anche con nessuna e solo voglia di scontrarsi con la polizia, vedi gli ultras delle squadre del Cairo), unite soltanto dal nemico comune da abbattere (il regime). Il Movimento del 6 Aprile (che raccoglieva il grosso dei giovani cyber-attivisti tanto incensati dagli organi di informazione nostrani) è stimato avere non più di 70.000 seguaci. Ma essendo un movimento “virtuale” (presente soprattutto su Facebook) nella società moderna risulta avere un peso spropositato rispetto alla sua incidenza reale nella società egiziana. Non è un caso quindi che la Piazza Tahrir, che tanto ha fatto esaltare l’Occidente per le sue domande di democrazia diretta e giustizia sociale, alla prova delle urne si sia scontrata con la dura realtà dei fatti: il trionfo di formazioni religiose conservatrici o addirittura apertamente reazionarie, come i salafiti e la sostanziale irrilevanza dei “giovani democratici”.

Le rivolte di questi ultimi anni sono state senza dubbio favorite anche da contingenze materiali, come la crisi economica globale causata dalla finanza angloamericana nel 2008 e il crescente divario di benessere tra fasce ricche e povere della popolazione. Dopo le “rivoluzioni colorate” dello scorso decennio (avvenute in Serbia, Ucraina, Georgia, Kirghizistan e parzialmente anche in Libano) possiamo identificare la prima rivolta dell’”internetpolitik” con le proteste della cosiddetta “Onda Verde” iraniana. A giugno 2009 in diverse città del Paese scoppiarono scontri e proteste contro la rielezione a presidente di Mahmoud Ahmadinejad. Per la prima volta un ruolo fondamentale venne ricoperto da Twitter, attraverso cui i dimostranti si scambiavano notizie ed opinioni su quanto avveniva e coordinavano i propri movimenti. Da notare come spesso queste notizie fossero infondate (o quantomeno non comprovate, basate solo su poche righe scritte da anonimi); eppure non solo i militanti, ma persino i mass-media stranieri non esitavano a riportarle come verità assolute. In particolare i bilanci delle vittime degli scontri finivano per essere oggetto di esagerazioni o invenzioni vere e proprie.
Per sua natura in situazioni come quella iraniana del 2009 (o libica del 2011, o siriana, o ucraina…) Twitter favorisce l’accavallarsi delle notizie in un crescendo isterico e privo di freni che contribuisce ad esacerbare ulteriormente gli animi. In pratica una nuovo potentissimo strumento di provocazione nelle mani di chi abbia propositi destabilizzanti.
Il paradosso quindi è che il web contribuisca contemporaneamente a rendere “liquida” la società moderna, per dirla con le parole di Zygmun Bauman, ad atomizzarla, ma anche a mobilitarla ove necessario.
Possiamo individuare alcune caratteristiche ricorrenti nelle rivolte di questi anni:

- l’evento scatenante. Quasi sempre c’è una miccia che scatena le proteste. Un evento che può essere rilevante (le elezioni presidenziali in Iran, la mancata firma dell’accordo con la UE da parte di Yanukovich) o al contrario simbolico (le proteste turche dell’estate scorsa innescate dalla difesa degli alberi del parco di Gezi) che però fa esplodere le tensioni;
- il mancato riconoscimento di qualsiasi legittimità dell’avversario. Tutti i governi presi di mira negli ultimi anni potevano contare su una base di sostegno popolare indiscutibile. Eppure fin dall’inizio i mass-media occidentali non esitano a definirli “dittature” (anche nel caso ucraino, quando l’elezione di Yanukovich a suo tempo non aveva destato alcuna obiezione da USA, UE, OSCE o da altri soggetti). Inoltre i sostenitori dei governi sono quasi sempre dipinti alla stregua di trogloditi reazionari incapaci di accodarsi alla lotta per libertà dei loro rivali, quando addirittura non provocatori prezzolati. Si pensi alla Libia di Gheddafi (i cui sostenitori erano tutti quanti “mercenari subsahariani”). Non di rado si ricorre anche a una precisa etichetta denigratoria: in Egitto i simpatizzanti filo-governativi erano i “Baltagia”, in Siria gli “Shabbiha”, in Ucraina i “Titushki”. Naturalmente la narrazione dominante non prevede di dare risalto alle ragioni di questi ultimi, che vengono unicamente demonizzati. Questo mentre si cerca di propagandare verso l’esterno un’immagine “moderata” e rassicurante nei confronti dell’altra parte, affermando che in caso di vittoria non ci saranno ripercussioni e vendette sugli sconfitti (i russofoni in Ucraina e gli alawiti in Siria) e promettendo di voler salvaguardare l’integrità del Paese;
- la foto-simbolo. Per smuovere le coscienze dell’occidentale medio, si sa, bisogna dimostrare sempre fantasia. L’obiettivo diventa quindi quello di scatenarne l’indignazione. Cercare un volto-simbolo della protesta dunque, possibilmente femminile e di bell’aspetto. Ciò è avvenuto in Iran (con Neda) e in Ucraina con l’ormai famosa infermiera colpita al collo da un proiettile;
violenza a senso unico. In fasi di scontro fratricida e di guerra civile come quelle a cui stiamo assistendo, entrambe le fazioni si macchiano senza dubbio di atti riprovevoli. I mass-media occidentali seguono però anche in questo caso un copione predefinito. I primi ad attaccare sono sempre i governativi, che (anche qui seguendo una narrazione ricorrente) si servono di “cecchini” per prendere di mira i “dimostranti pacifici”. Tale film è stato riproposto ovunque: dalla Libia (dove addirittura si parlò di raid aerei sulle manifestazioni con la successiva bufala delle “fosse comuni sulla spiaggia”), alla Siria fino ad arrivare ai giorni nostri in Venezuela e nella Maidan ucraina. Intendiamoci: nessuno nega l’uso della forza letale da parte delle forze governative. Resta però da stabilire se però siano sempre loro a cominciare. Romano Prodi sul The New York Times a proposito di Kiev sostiene l’esatto contrario, scrivendo che ad avere aperto il fuoco nella capitale ucraina sarebbero stati proprio i militanti dell’opposizione sulle forze di sicurezza, le quali poi avrebbero risposto. Tra il 18 e il 19 febbraio, il giorno più tragico degli eventi ucraini, sono morte 26 persone: di queste, almeno una decina erano membri delle forze di sicurezza. Come si capisce, è il bilancio di una battaglia, non di un massacro a senso unico;
-  l’impiego di forze estremiste. La presenza sul campo di forze ideologicamente estreme dovrebbe teoricamente suggerire all’Occidente una certa prudenza, o quantomeno equidistanza tra le parti. In Libia uno dei comandanti ribelli più importanti era stato pochi anni prima “ospite” delle celle di Guantanamo, in Siria le formazioni di matrice salafita hanno ben presto preso il sopravvento sulla sigla-ombrello del cosiddetto “Esercito Libero Siriano”. In Ucraina le prime file negli scontri di Maidan erano composte da elementi ultranazionalisti. Nonostante ciò queste presenze sono derubricate dall’Occidente a semplici conseguenze della mobilitazione violenta. In pratica la tesi è che la fase dello scontro “rivoluzionario” favorisca il sorgere di ideologie estreme maggiormente predisposte allo scontro ma che in caso di vittoria delle forze rivoluzionarie moderate e liberali queste sarebbero presto messe ai margini (un esempio in tal senso: i neo-Ustascia croati negli anni ’90). I qaedisti in Siria e gli ultranazionalisti ucraini diventano in quest’ottica manovalanza da sfruttare per fare il lavoro sporco, continuando al tempo stesso a sostenere le altre fazioni dell’opposizione (gli USA hanno iscritto il ramo di Al Qaeda in Siria, Jabhat Al Nusra, tra i gruppi terroristi pur continuando a sostenere il cambio di regime a Damasco). Va sottolineato però come questo calcolo sia miseramente fallito alla prova dei fatti in Afghanistan, quando dopo la cacciata dell’Armata Rossa e la conseguente guerra civile ad emergere vittoriosa fu proprio la componente più radicale ed estrema, quella dei talebani.
Ironico e particolarmente rivelatore è che la composizione dei gruppi più radicali della protesta ucraina ricalchi il panorama siriano: sia nel Paese ex-sovietico che in quello arabo abbiamo due grandi organizzazioni che si contendono il monopolio delle frange più estreme. In Ucraina Svoboda e Pravy Sektor, in Siria Jabhat Al Nusra e lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

Fonte: eurasia-rivista.org

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