Ma sarebbe ancor più utile una presa di coscienza che faccia tornare il mondo «indietro» alle regole abbandonate negli ultimi quattro decenni perché il capitalismo nato dalla rivoluzione liberista non è solo ingiusto: è insostenibile.
di Antonio Marinotti
Da 2008 è in corso una vera rivoluzione in Europa, ma sono in pochi a parlarne, eppure è l’unica nazione finora che è riuscita a superare quasi del tutto la crisi economica, evitare il fallimento e a far pagare i danni ai colpevoli e non ai cittadini.
È accaduto in un paese con la democrazia probabilmente più antica del mondo, le cui origini vanno indietro all’anno 930 e che ha occupato il primo posto nel rapporto del ONU sull’indice dello sviluppo umano nel 2007/2008. Indovinate di quale paese si tratta? Sicuramente la stragrande maggioranza non ne ha idea.
Si tratta dell’Islanda, dove si è fatto dapprima dimettere il governo in carica al completo, poi si è passati alla nazionalizzazione delle principali banche per la loro condotta fortemente speculatrice, infine si è deciso di non pagare i debiti che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l’Olanda (a causa della loro ignobile politica finanziaria); infine si è passati alla costituzione di un’assemblea popolare per riscrivere la propria costituzione.
Un esplosione democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con sé messaggi rivoluzionari di democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria e annullamento del debito. Che cosa accadrebbe se il resto dei cittadini europei seguissero l’esempio islandese?
- 2008 – A Settembre, dopo quindici anni di sviluppo economico, basato sul modello del neoliberismo puro, il paese è al collasso e gli effetti della crisi nell’economia del paese sono devastanti. Viene nazionalizzata la più importante banca dell’Islanda, la Glitnir Bank. La moneta crolla e la Borsa sospende tutte le attività: il paese viene dichiarato in bancarotta. L’insieme dei debiti per le attività bancarie dell’Islanda è equivalente a varie volte il suo PIL.
- 2009 – Il governo chiede ufficialmente aiuto al Fondo monetario internazionale che approva un prestito di 2.100 milioni dollari, accompagnati da altri 2.500 milioni di dollari da parte di alcuni paesi nordici.
- Le proteste dei cittadini davanti al Parlamento a Reykjavik aumentano. A Gennaio le proteste di migliaia di cittadini di fronte al Parlamento provocano le dimissioni del Primo Ministro Geir H. Haarden e di tutto il Governo, costringendo il Paese alle elezioni anticipate. La situazione economica resta precaria.
- – Il nuovo Parlamento propone una legge che prevede il risanamento del debito nei confronti di Gran Bretagna e Olanda, attraverso il pagamento dei debiti a Gran Bretagna e Olanda attraverso 3.500 milioni di euro che tutte le famiglie islandesi avrebbero dovuto pagare attraverso una tassazione chiedendo loro poco più di 100 euro al mese per quindici anni.In poche parole si privatizzano gli utili delle banche mentre si nazionalizzano le perdite. La situazione economica resta devastata con il crollo del PIL del 7%…
- 2010 – Gli islandesi capiscono che non si può sacrificare una nazione per gli errori di un manipolo di banchieri e finanzieri e tornano ad occupare le piazze, chiedendo di sottoporre a referendum popolare la legge sopracitata.
- Nel gennaio 2010, sotto pressione popolare, il presidente, Ólafur Ragnar Grímsson, rifiuta di ratificare la legge e indice la consultazione popolare a marzo: vincono, con il 93%, i NO al pagamento dell’ingente debito.
- La rivoluzione islandese vince. Il F.M.I. tenta di intimorire gli islandesi congelando l’aiuto economico al paese, nella speranza di imporre in questo modo il pagamento dei debiti.
- 2011 – Il Governo dispone le inchieste per determinare giuridicamente le responsabilità civili e penali della crisi. Vengono emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo e top manager. L’Interpol si incarica di ricercare e catturare i condannati: tutti i banchieri implicati abbandonano l’Islanda. In piena crisi, viene eletta un’Assemblea per redigere una Nuova Costituzione che possa incorporare le lezioni apprese durante la crisi.
- 2012 – La grande protesta del popolo islandese si concretizza nella redazione in forma «partecipativa» – anche attraverso consultazioni online – di una nuova Costituzione nella quale vengono rafforzati lo strumento referendario e le leggi di iniziativa popolare.
Questa è in breve la storia della rivoluzione islandese: dimissioni in blocco del governo, nazionalizzazione delle banche, referendum e consultazione popolare, arresto e persecuzione dei responsabili della crisi, riscrittura della costituzione, esaltazione della libertà di informazione e di espressione.
Da un Pil che nel 2009 perdeva più del 6,5 per cento e con una disoccupazione che superava l’8 per cento, si passa nel 2011 a una crescita che sfiora il 3 per cento e a un tasso di disoccupazione che nel 2013 è arrivato sotto il 5, mentre il debito pubblico ha iniziato a ridursi nel 2013.
È il riscatto indubbiamente sorprendente di un paese che, arrivato sull’orlo del baratro e a fronte di abnormi squilibri tra economia reale e dimensione del dissesto finanziario, aveva tutti i presupposti per implodere. Economisti e commentatori si sono soffermati a studiare con sempre più interesse questa “ricetta miracolosa”, ovvero della possibilità di far fallire le banche e la possibilità di far assolvere alla svalutazione della moneta un’importante funzione in termini di ristabilimento degli equilibri macroeconomici (in questo senso sottolineando il ruolo della sovranità monetaria, della quale l’Islanda è in possesso diversamente dai paesi appartenenti all’area euro). Tuttavia non è facile trarre conclusioni semplicistiche dalla lezione islandese.
Nel nostro paese, come in tanti altri paesi occidentali, si cerca di superare la crisi attraverso un processo di socializzazione delle perdite con i tagli sociali e la precarizzazione dilagante. Tali politiche sono sempre destinate a fallire, in quanto non è possibile ripagare i debiti se diminuiscono i redditi. La lezione islandese ci dice però che le crisi finanziarie richiedono una gestione globale e regionale in cui i creditori si accollino parte dell’onere del risanamento. L’Islanda vi è riuscita per «via giudiziaria», ma questo deve diventare un punto fermo per le istituzioni internazionali e i singoli paesi..
Un altro importantissimo punto riguarda le dimensioni geografiche/economiche dei paesi coinvolti. Infatti, l’Islanda come anche Cipro e la Grecia sono piccoli paesi i cui problemi sono sempre facilmente risolvibili, se vi è volontà politica internazionale, e quindi vanno distinti da quelli di grandi e medi paesi fortemente indebitati con l’estero. Questo però non fa che rafforzare ulteriormente la critica verso la strategia suicida sinora perseguita nell’Eurozona. I casi greco, cipriota e irlandese sarebbero stati facilmente gestibili e un’accurata manovra «federale» avrebbe evitato il panico sui mercati evitando i drammatici riflessi avuti su Spagna e Italia.
Infine, rimane il problema di regolamentare i movimenti di capitale e merci a livello globale. Qui tornerebbe utile la proposta di Keynes a Bretton Woods in cui si stabiliva la legittimità di dazi e controlli sui movimenti di capitale. Questo, insieme alle leggi bancarie nate dopo la crisi del 1929, assicurò al mondo trent’anni di stabilità e crescita. [...] Dunque Il periodo «keynesiano», che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni Settanta, rappresenta l’unico periodo nell’intera storia in cui abbiamo avuto una stabilità significativa.
Sebbene l’Islanda non costituisca il modello perfetto da poter applicare ovunque, alcune lezioni sono utili. Ma sarebbe ancor più utile una presa di coscienza che faccia tornare il mondo «indietro» alle regole abbandonate negli ultimi quattro decenni perché il capitalismo nato dalla rivoluzione liberista non è solo ingiusto: è insostenibile. Il neoliberismo sostiene la liberazione dell’economia dallo Stato, la deregulation, il libero mercato, l’abbattimento delle barriere doganali, tasse, il taglio della spesa pubblica, la vendita del patrimonio dello Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, e, soprattutto, la demolizione dello stato sociale, cioè, quell’insieme di servizi-diritti (scuola pubblica, sanità pubblica, previdenza, servizi sociali) mediante i quali uno Stato civile garantisce l’esistenza in vita alle categorie sociali più deboli e il ricambio generazionale di cui tanto avrebbe bisogno l’ Europa. Ancora una volta, confondono la cura con la malattia.
Fonte: lintellettualedissidente.it